La Malo di Meneghello
Ph. by Adriano e Lisa Marchesini

La Malo di Luigi Meneghello

Perché questo paese mi pare certe volte più vero di ogni altra parte del mondo che conosco? E quale paese: quello di adesso, di cui ormai si riesce appena a seguire tutte le novità; o quell’altro che conoscevo così bene, di quando si era bambini e ragazzi, e ciò che ne sopravvive nella gente che invecchia? O non piuttosto l’altro ancora, quello dei vecchi di allora, che alla mia generazione pareva già antico e favoloso? È difficile dire.
Ora siamo in un momento in cui, scrivendo, non si può dire bene né “il paese di allora” né “il paese di adesso”; i tempi mi oscillano sotto la penna, era, è, un po’ di più, molto meno. In alcune cose il cambiamento è radicale, quello che era non è più, in altre c’è poco cambiamento.
Mentre si formano le nuove strutture è rimasto ancora non poco delle vecchie, di quella vita paesana che fino a una generazione fa era comune ai nostri paesi della provincia, e per noi era (e per certi versi è rimasta) la vita. Quella vita si potrebbe rimpiangerla solo per sentimentalismo generico: ma qui dove almeno l’impianto generale delle strade, delle case, degli edifici pubblici è rimasto quasi immutato, è ancora possibile commemorarla.
Il paese di una volta aveva un suo pregio: formava una comunità umana modesta ma organica. Ci conoscevamo tutti, il rapporto tra i vecchi e i giovani era più naturale, il rapporto tra gli uomini e le cose era stabile, ordinato, duraturo. Duravano le case, le piccole opere pubbliche, gli arredi, gli oggetti dell’uso: tutto era incrostato di esperienze e di ricordi ben sovrapposti gli uni agli altri. Gli utensili domestici avevano una personalità più spiccata, si sentiva la mano dell’artigiano che li aveva fatti; la parsimonia stessa del vivere li rendeva più importanti. Perfino i giochi dei bambini erano più seri: meno giocattoletti di plastica, meno sciocchezze. Tutto costava e valeva di più: perfino le palline “di marmo”, le figurine con cui si giocava erano tesori.
Le stagioni avevano più senso, perché vedute negli stessi luoghi, sopportate nelle stesse case. Sembrava quasi che anche la vita privata avesse più senso, o almeno un senso più pieno, proprio perché era indistinguibile dalla vita pubblica di ciascuno. Si veniva al mondo con una persona pubblica già ben definita: Chi sei tu? Un Rana, un Cimberle, un Marchioro? Di quali Marchioro: Fiore, Risso, Còche, Culatta, Culattella? Dove non bastavano i nomi di famiglia, intervenivano i soprannomi di famiglia a definire l’identità di ciascuno. Si era al centro di una fitta rete di genealogie, di occupazioni ereditarie, di tradizioni, di aneddoti.

Luigi Meneghello, da Libera nos a malo

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